
Sull’irrigidirsi e sulla pazienza dell’Anima
Esistono modi di funzionare rigidi che non hanno tanto a che fare con quello che poi noi chiamiamo malattia, ma con un allontanamento dall’Anima che tante volte chiamiamo “buon senso”.
Sono modi spesso organizzati, che ci fanno sentire di avere un piano per affrontare l’esistenza o il quotidiano, ma che tagliano fuori Anima dai nostri giochi – e quindi tengono lontano conflitti, imprevisti ma molto spesso anche la fiamma che ci fa sentire vivi.
In questi mesi è successo anche a me, di irrigidirmi, di spingere la mia vita in tante caselline perché a volte questo è il modo che trovo per vivere nel caos del mondo.
La noia di solito è il primo segnale. La non-voglia lampante di non-fare tutte le cose che dovrei. Il secondo segnale è quando la creatività diventa una torre, cioè mi rinchiude nel mio mondo, smettendo di cercare di comunicare con gli altri.
Poi, per fortuna, sopraggiunge la crisi, il dolore che apre le crepe e di solito è proprio la crisi a legittimare il cambiamento.
Per questo il dolore, quando trova le parole con cui vestirsi (come accade in terapia), è così importante: perché legittima la possibilità di pensarsi in modo nuovo, di raccontare qualcosa di diverso, in un ascolto che ha rispetto per questo nostro sentirci piccoli e insignificanti.
Insomma, Anima deve avere una pazienza immensa con noi.
Ma la cosa bella è che si ferma sempre per voltarsi,
per vedere dove siamo rimasti.
E aspetta.

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