
Tristezza e precipitati d’amore
Il fatto è questo.
A un certo punto, non si sa quando, ho iniziato a essere due.
Prima era la tristezza il mio motore: mi respirava negli occhi, era affamata di poesia e di vita, cercava carezze che potessero comprenderla, scavava dei vuoti così grandi che non sapevo se era vertigine quella che provavo o liberazione.
Poi è arrivata un’altra. Si è formata con l’amore. Non un amore in particolare concentrato in un solo punto, ma un amore che si è accumulato in un susseguirsi di persone e di piccoli impercettibili cambiamenti: sono nata, di nuovo, da un accumulo d’amore.
Il problema è che non sempre l’arrivo dell’amore fa bene. Lo puoi anche desiderare, ma quando poi te lo senti addosso ti sembra di soffocare e vuoi solo scappare a gambe levate.
Insomma, puoi essere spaventato se non hai un organo allenato, che sa come abbracciarlo questo amore, perché non hai una struttura che ha imparato a sorreggerlo.
Così ti trovi a essere due ma a non riconoscerti più in nessuna.
Non sei più la tristezza che ben conoscevi – quella con quell’aureola che brilla intorno alla testa e le grandi mani, piene di sguardi tesi in tutte le direzioni.
Non sei neanche solo un precipitato d’amore, nato dalla relazione con l’Altro.
Sei un oceano che non conosce il proprio nome e un po’ ti senti strano quando cammini.
Ti chiedi se anche gli altri se ne accorgano, se si rendano conto che hai lasciato tutta la pelle agghindata che indossavi nell’armadio e che non hai la più pallida idea di cosa stai diventando.

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